"Potrebbe essere necessario riaprire le centrali a carbone per colmare immediatamente eventuali carenze energetiche. Il governo è pronto a intervenire per abbassare ulteriormente il prezzo dell'energia, qualora ciò si rendesse necessario". Lo ha affermato il presidente del Consiglio Mario Draghi meno di un mese fa, all'interno di un briefing formale della Camera dei Deputati italiana, ovviamente incentrato sul conflitto tra Russia e Ucraina.
Non si tratta di una notizia isolata: poco dopo, intorno al 10 marzo 2022, diversi deputati e senatori della destra italiana hanno depositato un'interrogazione parlamentare volta alla riattivazione di alcune miniere di carbone italiane, al fine di rispondere adeguatamente alla sempre più evidente crisi energetica italiana, proprio a causa del conflitto ucraino, oltre che per trovare rapidamente un'alternativa al gas importato dalla Russia.
Cosa comporterebbe tutto questo? Le miniere di carbone prese in esame sono principalmente quelle della Sardegna: per esempio la miniera del Monte Sinni, nel Sulcis.
Questo sito di estrazione è tecnicamente ancora operativo, ma l'estrazione sta già per terminare (intorno al 2027) in linea con le direttive europee.
L'interrogazione formale al senato italiano è mirata all’ottenimento del riconoscimento dello status di “Riserva Strategica” e, di conseguenza, al proseguimento dello sfruttamento del carbone a fini energetici ben oltre i vincoli già vigenti.
Questa è una strada da percorrere?
Secondo i sindacati e le organizzazioni di categoria italiane no, non è né possibile né utile.
Le riserve e le miniere di carbone ancora in funzione in Italia non sarebbero nemmeno lontanamente sufficienti a garantire l'approvvigionamento energetico del Paese. La carenza strutturale di innovazione, nuove tecnologie, personale, infrastrutture - per i siti minerari che infatti sono già destinati allo smantellamento - renderebbe estremamente improbabile anche un aumento significativo delle quantità di carbone estratte nel breve termine.